Manoscritti latini

I manoscritti che la Vaticana considera “latini” sono quantitativamente, ma forse anche qualitativamente e in certo modo simbolicamente la sua maggiore e meno nota ricchezza: meno nota appunto perché amplissima; se ne possono infatti calcolare almeno circa 60.000, se si escludono i documenti d’archivio. Si considerano infatti propriamente latini i libri e i documenti scritti con la scrittura latina: cioè non solo quelli che utilizzano, in tutto o in parte, la lingua di Roma, ma anche quelli vergati nelle lingue figlie dirette del latino e in quelle che si sono servite dell’alfabeto latino per esprimersi con la parola scritta. Una ricchezza quindi non solo materiale, ma anche storico-cultuarle, secondo uno dei caratteri propri della Vaticana: biblioteca tra le più antiche d’Europa, posta a servizio di un’istituzione, quella pontificia, che nella sua missione vuole essere universale ed è erede della tradizione romana per lingua e per collocazione geografica, la città eterna, madre di molte culture.

Concretamente e anche per influenza del movimento umanistico entro cui la Vaticana è nata – sotto il pontificato di Niccolò V – le collezioni latine raccolgono così scritti antichi in codici databili dalla tarda età romana (V-VI secolo: ad esempio Virgilio e Cicerone), fino a scritti e carte del Novecento storico e letterario. Un panorama davvero bimillenario per testi e scritture, profondo nello spazio e nel tempo, classico e cristiano; un patrimonio costituitosi lentamente, con scelte oculate lungo gli oltre cinquecento anni di una storia complessa che si intreccia con le vicende degli studi d’Italia e d’Europa durante tutta l’età moderna. Così i libri diventano non solo singoli veicoli di opere remote o recenti o cimeli di antichità grafiche, ma, anche, per la loro storia complessiva, testimonianze vive del farsi della cultura occidentale.

Il più antico dei fondi latini, tuttora conservati in Vaticana, è la prima grande sezione del fondo denominato Vaticano latino che, nel suo complesso, è il più vasto di tutta la raccolta manoscritta e giunge oggi a 15407 segnature, che corrispondono a un numero ben superiore di unità librarie. Esso costituisce anche il cosiddetto “fondo aperto” tra quelli latini, perché vi vengono inserite le nuove acquisizioni che via via giungono nella scrittura latina. Nella sua prima parte, dal Vat. lat. 1 al Vat. lat. 4888, esso costituisce il nucleo storico inziale. Esso si formò a partire dalla collezione originaria allestita dal papa fondatore Niccolò V, che accorpò i circa 300 volumi della biblioteca di casa di Eugenio IV e quelli della sua raccolta personale di teologo e filologo umanista, da lui accuratamente annotati, e facendovi aggiungere molte unità allestite appositamente per la nuova biblioteca di palazzo. In essa furono accorpate intere biblioteche di prelati o singoli acquisti: già nel 1481 era salita a oltre 1200 unità, per arricchirsi ulteriormente fino a tutto il sec. XVI.

Quando Sisto V, attorno al 1590, trasferì la biblioteca nella nuova sede, il fondo latino vi fu allestito e catalogato secondo un preciso ordine biblioteconomico e cioè per argomenti di studio e per autori (Bibbia, teologi antichi e teologi moderni, diritto, classici pagani, medicina, ecc.), così da costituire una vera e propria biblioteca manoscritta autonoma, contraddistinta da 4888 segnature progressive, corrispondenti ad altrettante descrizioni catalografiche, in cui venivano riscontrati e indicizzati autori e opere per ogni singolo volume, in modo molto accurato per i tempi. Questo ordinamento di carattere rinascimentale non fu più turbato nei trasferimenti successivi e il catalogo allora redatto è ancora alla base delle ricerche attuali, soprattutto della catalogazione moderna, avviata alla fine del sec. XIX con carattere analitico e che copre circa la metà di tutta l’estensione.

La digitalizzazione e la metadatazione che, con il tempo, intende coprire pressoché tutto questo vasto patrimonio manoscritto originario, sta affrontando le due sezioni iniziali, quella delle prime 168 segnature a contenuto biblico, cui seguono altre 510 segnature a contenuto patristico. Si tratta di due collezioni preziose e tra loro saldamente ancorate: da una parte il testo biblico e i suoi commenti, fonte originaria dello studio teologico, dall’altra un vasto repertorio di testimoni della patrologia, dai più antichi patri latini fino agli autori monastici dell’alto medioevo, che al metodo teologico patristico continuarono a riferirsi. Una prospettiva di studi che, dal III secolo dopo Cristo, giunge quindi fino al XII.

La sezione biblica in se stessa contiene alcuni esemplari di grande lusso e tutto lo strumentario di base per la lettura e il commento della sacra scrittura, così come allora eseguito secondo i canoni universitari del tempo: il testo in grandi e piccoli volumi, con introduzioni e capitolazioni remote, alcune glossature altomedievali, quelle di ambiente universitario, i principali commenti continui. Vi si alternano, quindi, ordinati per tipologie librarie, codici di grande effetto estetico, veri monumenti alla Scrittura, finemente vergati e decorati, provenienti soprattutto dall’Italia e dalla Francia d’età gotica, a preziosi testimoni di commenti alla parola in forma di glosse. Una sezione nel suo complesso poco studiata dal punto di vista codicologico/paleografico e testuale. Più nota, soprattutto ai filologi, è la sezione patristica che mostra il grande sforzo compiuto dall’Umanesimo nel recupero sistematico della teologia latina più antica patristica e monastica: vi sono custoditi importanti testimoni altomedievali dei padri della Chiesa e le prime edizioni in forma manoscritta d’età umanistica. Questa seconda sezione, contraddistinta dalla massiccia presenza di opere dei quattro principali padri latini, Ambrogio, Girolamo, Agostino, Gregorio Magno, con una netta e interessantissima prevalenza del teologo di Ippona, è forse tra le più importanti dal punto di vista filologico e paleografico di tutta la raccolta vaticana.